di Julian Barnes
«Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure - e perciò - aspiriamo a elevarci. Da spettatori terragni quali siamo, qualche volta ci è dato di raggiungere gli dèi. Alcuni di noi lo fanno attraverso l’arte, altri con la religione; nove su dieci, con l’amore. Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo rischiamo di precipitare. Non sono molti gli atterraggi morbidi».
Tre leggendari pionieri ottocenteschi rivivono fra le pagine dell’originale e struggente mescolanza di fatti e finzione che è Livelli di vita: Fred Burnaby, colonnello della cavalleria della Guardia Reale inglese e viaggiatore per terre esotiche e inesplorate, la «divina» Sarah Bernhardt, la più grande attrice di tutti i tempi a detta di alcuni, e Félix Tournachon, il caricaturista, vignettista, aeronauta e celebre fotografo ritrattista noto come Nadar.
Ad accomunarli, un’incomprimibile passione per il volo, l’impulso sacrilego a issarsi a bordo di una cesta di vimini appesa a un pallone e, affidandosi a un precario equilibrio di pesi e correnti, sganciarsi dal regno che ci è deputato per conquistare lo spazio degli dèi.
Una buona metafora per ogni storia d’amore. Quella immaginata fra Burnaby e Sarah Bernhardt, ad esempio - l’aria, l’assenza di vincoli, l’eccentricità, lei; la concretezza, l’avventura, la disciplina, lui. O quella, cinquantennale, fra Nadar e l’afasica moglie Ernestine. Oppure la storia d’amore, durata trent’anni e poi proseguita, fra Julian Barnes e la moglie Pat Kavanagh. Storie in cui «metti insieme due cose che insieme non sono mai state e il mondo cambia», esempi di una «devozione uxoria» che travalica ogni barriera.
Volare è esaltante e semidivino, volare è pericoloso. Un calcolo sbagliato, un vento contrario, un disegno avverso, o la casuale assenza di esso, e si può precipitare. Finire conficcati nel terreno fino al ginocchio, magari, con gli organi sparsi tutto intorno.
Perduta l’altezza, perduta la prospettiva, disintegrati nel corpo e nello spirito, che cosa ci rimane? Orfeo poté scendere agli Inferi per riportare indietro la sua Euridice. Ma l’impresa (con la sua implicita consolazione religiosa) è a noi preclusa. «Abbiamo perso le antiche metafore e dobbiamo trovarne di nuove. Noi non possiamo scendere laggiú come Orfeo. Perciò dobbiamo farlo in modo diverso, riportarla indietro in modo diverso. Possiamo ancora scendere dentro i sogni. E possiamo scendere nella memoria».
I ricordi, dunque, baluardi di una vita ancora intatta e densa e furiosa, tramiti di un discorso amoroso che non si esaurisce e non placa. In attesa di un vento da settentrione, capace di riportare in quota.