Nel vento è un libro terribile, feroce. E’ scritto in uno stile volutamente piano, pacato, senza accensioni funamboliche o torsioni linguistiche barocche, ma resta egualmente una narrazione piena di pathos che si tinge di orrore e di dolore dalla prima all’ultima pagina.
La storia che il protagonista si racconta e che rimugina continuamente nella sua testa mentre attende il colpo di pistola dello starter che darà inizio alla corsa veloce più importante della sua vita è allucinata e produce effetti forti di distorsione della realtà in chi la affronta senza le adeguate protezioni psicologiche e senza avere idea di dove la vicenda potrebbe condurlo.
Lo stesso incipit del breve romanzo di Gucci è agghiacciante :
«Nel 1992 mio padre uccise mio fratello nella neve. Nel 2007 ho perso Caterina per sempre. Io per questi motivi corro. Ci penso mentre picchietto la punta delle scarpe chiodate sui blocchi di partenza e ascolto il rumore che fa, lieve ma riconoscibile nel baccano dello stadio. Mio fratello si teneva le mani premute sulla testa spaccata e ansimava a fiotti. Sbatacchiò con i gomiti e la schiena sui muri, sul mobile della sala, fece cadere due sedie e poi riuscì ad aprire la porta finestra, uscire nella neve. Lo vidi sbarrare gli occhi e precipitare all’indietro, poi non lo vidi più. Non sentii neanche un rumore. Sarebbe bastato sporgermi per guardarlo ancora, alzarmi e muovere quei due passi che avrei dovuto compiere prima, intervenendo, perché non si arrivasse a tanto. Invece, paralizzato sulla sedie qualcosa scattò nella mia testa – ed era il mio correre»[1].
Le ragioni del perché suo padre abbia ucciso il fratello rimarranno ignote per tutto il romanzo (anche se si verrà a sapere in seguito che il giovane avrebbe dovuto incontrare qualcuno a scuola che gli avrebbe potuto fare delle rivelazioni proprio sul padre) e la scomparsa della donna amata e con la quale vive momenti frenetici e tenerissimi d’amore resta sconosciuta (anche se se ne intuisce la ragione di crepuscolo di un rapporto sentimentale esploso e poi sfiorito in maniera quasi necessaria, come per un destino già deciso in partenza ed opera di un burattinaio che ne ha mosso le fila fino dall’inizio di tutto). Quello che viene chiarita è l’importanza della corsa per il protagonista: un atto compulsivo, fondamentale, impossibile da reprimere anche, durante la storia d’amore con Caterina, il personaggio narrante aveva praticamente smesso di correre per rimanere con la donna amata. Allo stesso modo, non si saprà il numero (i corridori sono designati dal loro numero sulla maglia e designati esclusivamente con esso) del vincitore della gara e, alla fine dell’evento sportivo (che non viene descritto) si conoscerà il risultato del protagonista : arriverà secondo un’altra volta e si rassegnerà, in fondo, a questo ruolo di eterno numero due nelle classifiche sportive.
Gucci assapora nelle sue pagine questa vertigine dell’assenza : non spiegare completamente tutto, non chiarire fino in fondo le ragioni per cui gli avvenimenti si verificano, lasciare un largo margine di inspiegato, di non detto, di non chiarito, accentua la suspence della scrittura e rende il personaggio un torso ancora tutto da abbozzare, misterioso la sua parte, costruito su frammenti di informazioni e su accenni, con un’identità che non si rassegna a essere e si concentra su pochi gesti fondamentali. Anzi, su uno solo : allenarsi strenuamente e correre per vincere.
Quando il protagonista decide di diventare un’atleta e viene ospitato a casa sua da Stefano, il professore di educazione fisica della sua scuola, l’unico che lo aveva incitato a diventare uno specialista nella corsa veloce, si sente, per la prima volta, diventare un adulto, un uomo “vero”.
A differenza dell’essere incompiuto di prima che non rispondeva alle domande durante le periodiche interrogazioni scolastiche e lasciava bianchi i fogli su cui avrebbe dovuto redigere i compiti in classe, ora sembra acquistare un’identità più precisa, più mirata :
«A me piaceva sfilarmi dal branco ma quella del branco mi sembrava l’unica difesa possibile. Stefano rientrò nell’infermeria che io dormivo. Mi appoggiò una mano sulla fronte e mentre aprivo gli occhi disse che già stavo meglio, che avevo un fisico da atleta. Che erano le nove di sera e che avremmo cenato insieme in un’osteria dove andava spesso con la squadra. Io sentii sciogliersi dentro una gioia quanto forse non avevo mai sentito. Fu la prima volta in cui mi pensai veramente adulto»[2].
Il personaggio principale del romanzo di Gucci acquista una progressiva identificazione passando attraverso i numerosi “bianchi” che costituiscono la sua vita e, dopo aver superato il momento in cui essi sembravano predominare, ritrova una sua dimensione (quasi) precisa.
Dopo essere arrivato secondo nell’ennesima gara ed essersi confrontato positivamente con l’ombra del fratello scomparso (una vera e propria scena di riconoscimento e di incontro che ricordano da vicino la nekuya omerica di Ulisse e quella virgiliana di Enea), è pronto ad assumere un ruolo più stabile. Il timore dell’inadeguatezza personale sembra averlo abbandonato :
«Ma esiste davvero un’altra storia, un altro motore, un passato diverso da quello di oggi per provare a vincere domani? Ancora: Non ricordo il paese in cui sono nato. Dal 1990 ho conosciuto soltanto vento di mare, fame, galere, piste di cemento, caserme, odio. Non ho mai amato veramente: neanche per dieci secondi, neppure per cento metri. Io per questi motivi corro. Quasi mi diverto e vorrei inventarne ancora, mentre al polso del primo classificato colgo l’emblema della sconfitta odierna: il braccialetto d’oro che scintillando mi ha rapito gli occhi e traviato il flusso, correndo. Abbasso lo sguardo su un fazzoletto d’erba scura che non riesce più ad assorbire l’acqua sparata dal cielo, sorrido coprendomi la bocca e sento di non avere più niente da pensare, né da mentire, adesso che anche l’ultima cosa importante, quello che oggi sono stato realmente, va mutando dentro di me. Sei un centometrista, questa è la sola verità»[3].
Lo scrittore fiorentino non è nuovo a exploit narrativi di simile tenore[4] ma con questo romanzo di ordinaria follia tocca punti di rara efficacia espressiva con la minima spesa di investimento lessicale e senza la necessità di produrre alcuno spiazzamento linguistico nei confronti di una tradizione in continuo movimento come quella italiana. Il modello di scrittura presente in questo romanzo è, infatti, modulato classicamente, anche se vi predomina il flusso di coscienza.
Tra echi (anche programmaticamente assunti in sede di scrittura) della produzione del primo Peter Handke[5] e suggestioni che gli vengono dal realismo magico sudamericano (in particolare Gabriel García Marquez ma anche Roberto Arlt, Carlos Onetti e l’Osvaldo Soriano meno “mimetico” e più onirico), il romanzo di Gucci riesce a contemperare a durezza degli assunti iniziale con una volontà di interrompere il circuito della pena e permettere al protagonista di perdonare a se stesso, salvandolo dalle more dell’oblio.
Meno dura nella dimensione narrativa e più pateticamente drammatica, la raccolta di racconti Più del tuo mancarmi [6], forse perché destinata a un pubblico più “morbido” e meno agguerrito, rimane però legata a quella dimensione malinconica e obliosa che aveva caratterizzato Nel vento.
Di grande intensità è il racconto Briciole di talento, la storia di Andrea, senza lavoro fisso e da poco piantato dalla donna che ama, Michela, evidentemente stanca di precarietà e di incertezza esistenziale. Eppure Andrea un po’ di talento ce l’ha se un suo racconto ha vinto un premio letterario di una qualche importanza (consistente in un buono per l’acquisto di libri e non in denaro) e la sua aspirazione principale è quella di poter continuare a scrivere. Suo padre gli ha procurato un lavoro come magazziniere in una fabbrica di imballaggi e lo esorta ad andarci senza fare troppe difficoltà perché il posto è buono e gli altri operai lo aiuteranno a impratichirsi in un’attività che gli sembra assai lontana dalle sue aspirazioni. Quando il padre ha appena finito di prospettargli la sua nuova attività lavorativa, la sua mente vola altrove, in un modo magico, dove le contraddizioni della vita sembrano svanire facilmente e dolcemente:
«Andrea guardava il vassoio delle polpette, al centro del tavolo. Si stavano raffreddando, sarebbero diventate di gomma e non le avrebbe digerite più. In testa gli venne un sogno vecchio di molti anni, di una luce fortissima, bianca, in un posto d’estate perenne, dove si camminava sull’acqua del mare, dolce, i sorrisi erano spontanei, c’era musica ovunque e anche lui sapeva suonare molto bene, forse il basso, forse la chitarra. Poi entrò in scena la forchetta di suo padre, che con tre colpi decisi infilzò altrettante polpette, e con le dita si aiutò a scaricarle nel piatto»[7].
Alla fine, Andrea si piegherà al ricatto degli affetti familiari e sceglierà di andare a lavorare in fabbrica ma con la consapevolezza di avere, nonostante tutto, un “briciolo di talento”, quello che gli ha permesso di vincere un premio nel quale non sperava forse più.
Negli altri racconti, predomina una luce di mestizia e di tristezza contenute, risolte all’interno di paesaggi invernali o di ambienti claustrofobici. In Apri questa porta, una donna, Milly, respinge le avances di un uomo, Franco, con il quale ha avuto una importante relazione e che vorrebbe riprenderla perché non ha mai smesso di amarla. Ma la donna non cede al richiamo della passione trascorsa e preferisce rimanere “dietro la porta”[8], dopo avergli scaraventato addosso dalla finestra tutto quello che in casa era rimasto a ricordargli quello che ormai considerava il suo perduto amore.
In BWV 988 (che è il titolo di catalogo delle cosiddette Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach), Mirco si reca a Bologna ad incontrare Anna, la pianista che ha vissuto con il padre fino alla morte repentina di lui. Nell’incontro con la donna della quale la madre del giovane ha sempre detto al figlio tutto il male possibile per via dell’odio che nutriva per lei, l’uomo apprende molti particolari inediti sul padre e apprende del legame particolare che quest’ultimo aveva avuto con la musica classica (di cui era stato ignorante e del tutto digiuno da sempre) e in particolare per quei particolari pezzi di clavicembalo di Bach che Anna amava suonargli.
In Dal passato, un uomo ormai maturo apprende con raccapriccio che la figlia sa di non essere sua figlia per davvero ma di essere stata adottata dopo che la madre naturale era morta dopo averla data alla luce. Ma i rapporti familiari che questa notizia avrebbe potuto sicuramente mettere in discussione non cambiano e restano affettuosi come prima e soltanto più consapevoli della reale natura della posta relazionale che è in gioco.
In L’albero, infine, un uomo ormai separato dalla moglie va a trovare la figlioletta che vive con la madre e quest’ultima insiste perché il padre vada con lei ad ascoltare “l’albero dei fantasmi” le cui voci cantanti dice di aver sentito emettere suoni. Ma queste “voci di dentro” forse non sono altro che l’eco dei pensieri che continuamente l’uomo si porta dentro e l’attesa dei canti che l’albero dovrebbe emettere (ma di cui il lettore non saprà mai nulla di certo) rafforzerà il suo legame sia con la figlioletta che con la sua nuova donna Veronica.
Sono storie di famiglie che si sono sfasciate e che si rafforzano sulla base di legami non naturali ma solo affettivamente connotati; sono vicende di amori perduti e di rabbie trattenute ma dure a morire, durate tutta la vita; sono storie di ordinaria malinconia che permettono ai paesaggi esterni di prevalete sugli umori sotterraneamente interiori dei personaggi.
Sono storie di vite che credono di essere del tutto perdute ma che hanno ancora molto da recuperare dalla parte migliore, più autentica, più delicatamente interiore di se stessa.
La scrittura di Gucci si adatta ad esse, con sincerità e coraggio morale, senza azzardare giudizi ma dandone conto in maniera patetica e talvolta commossa, cercando al loro interno quelle “briciole di talento” che sanno farle esistere sulla pagina.
[1] E. GUCCI, Nel vento, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 9.
[2] E. GUCCI, Nel vento cit., p. 18.
[4] Basterà ricordare i suoi Donne e topi (Roma, Fazi, 2004), Sto da cani (Roma, Fazi, 2006) e soprattutto Un’inquilina particolare (Milano-Parma, Guanda, 2008), racconto acceso e travolgente della storia d’amore tra un uomo solitario malato di psoriasi e un transessuale e, infine, L’umanità (Roma, Elliot, 2010), narrazione del tentativo di un uomo solo che tenta di uscire dal tunnel della sua vita. Di notevole interesse anche Firenze canaglia pubblicato da Mauro Pagliai Editore di Firenze nel 2009, un libro costituito da una raccolta di testi usciti prevalentemente sull’inserto fiorentino di “Repubblica” nella rubrica domenicale Oblò. La categoria della solitudine è centrale nella produzione di Gucci e caratterizza anche gli eventi narrati in Nel vento.
[7] E. GUCCI, Più del tuo mancarmi cit. , pp. 92-93.