Marino Biondi, Fellini: il sogno italiano.


Una vita nel cinema e per il cinema. Marino Biondi, Fellini: il sogno italiano. Cinquant’anni dalla “Dolce vita”, Cesena, Società Editrice Il Ponte Vecchio, 2010
di Giuseppe Panella

Sono già passati cinquant’anni da quel 5 febbraio del 2010 in cui La Dolce Vita fu proiettato per la prima volta a Roma e il suo fascino di film epocale non è ancora stinto e trascorso sugli scaffali delle Cineteche in cui vengono conservati i film non più distribuiti nelle sale. Si trattò davvero (e la consapevolezza di questo suo destino era già presente nelle menti di chi lo vedeva per la prima volta) di un film destinato a costituire un punto di passaggio nell’immaginario collettivo e nella cultura sociale del suo tempo. Ci fu chi ne parlò male e lo criticò severamente bollandolo come film immorale e da censurare per i suoi contenuti negativi e nichilistici (la parte più retriva del clericalismo italiano ma non tutti i cattolici, soprattutto quelli più aperti al dialogo iniziato con l’elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII; molti esponenti della sinistra delusi dall’abbandono definitivo del neorealismo da parte di Fellini, ma non Elio Vittorini, ad esempio, cui il regista riminese aveva proposto la parte dell’intellettuale suicida Steiner).
 
«Dopo la guerra, La dolce vita fu come un riprendersi gli anni perduti. Quel che è certo è che riuscì a essere uno spartiacque nel tempo del paese, fra un prima e un dopo, fra due Rome, ma anche fra un’Italia arcaica e un’Italia moderna. Un’Italia romana e romanizzata, vista da un provinciale di genio, che fece scandalo e inaugurò il tempo degli scandali, in cui dapprima preti e moralisti inflissero a Fellini le più feroci reprimende : di vedere nero nell’animo dell’uomo, di pescare nel torbido delle notti brave (neologismo pasoliniano per un film di Mauro Bolognini). Anche se l’alba, per chi sappia vedere il film, andava in scena tutti i giorni, appunto dopo le notti, nel bene e nel male. Proviamo a dirlo con uno scrittore di quegli anni, che di notti dell’anima e alienazioni, s’intendeva drammaticamente, Ottiero Ottieri, dalla sua Linea gotica del 1962: “Il tempo stringerà e l’indomani sarà già cominciato con il buio notturno che lo precede, come sempre”. “Grande annata il 1960 per il cinema italiano: è l’anno della Dolce vita, dell’Avventura, di Rocco e i suoi fratelli, tre opere capitali” [scrive Gian Piero Brunetta nella sua Storia del cinema italiano. IV. Dal miracolo economico agli anni novanta, 1960-1993, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 189] . Non fu soltanto l’età di Fellini dunque, anche se Fellini fece con La dolce vita “epica cinematografica”, un genere non più ripetuto in seguito» (pp. 132-133).
 
Certo L’avventura di Antonioni non era un affresco o una proposta di lettura generale della società italiana ma lo scavo in un fallimento esistenziale letto attraverso l’uso di una macchina da presa attenta più al paesaggio naturale e umano che alla storia in sé e per sé mentre Rocco e i suoi fratelli di Visconti, narrazione di cinque personaggi legati “come le dita di una mano” (quel che Visconti richiese ai suoi soggettisti Suso Cecchi D’Amico e Vasco Pratolini) voleva essere un tentativo di scrittura filmica il più vicina possibile alla grande tradizione del romanzo borghese classico. Fellini non aveva ambizioni letterarie (o meglio cercava di nasconderle) ma voleva mostrare in atto, visivamente, una serie di situazioni pur sempre diverse tra loro e spesso lontane come prospettiva morale e culturale che andassero a ricomporsi in un affresco della Roma capitale di un paese in totale e irreversibile trasformazione. Biondi, tuttavia, preferisce parlare di un “poema cinematografico, suddiviso in canti e strofe”, riprendendo quest’espressione da un critico cinematografico en amateur, il Giuseppe Marotta più noto per L’oro di Napoli o A Milano fa freddo, bozzettista accorato e passionale alla ricerca di istantanee di un’Italia che spesso non c’era più :
 
«Fellini diede una descrizione sintetica della forma del film: “Agli sceneggiatori dissi: dobbiamo fare una statua, romperla e ricomporre i pezzi. Oppure tentare una scomposizione picassiana”. Brunello Rondi, cosceneggiatore del film, convinto che l’innovazione fosse eminentemente strutturale, definì La dolce vita “uno dei più inquieti saggi del moderno ulissismo”. Ma fu uno scrittore, Giuseppe Marotta, che faceva occasionalmente il critico cinematografico, a intuire che il film non era né un affresco, né una denuncia, ma “un poema cinematografico, suddiviso in canti e in strofe” [“Dunque non userò, per La dolce vita, espressioni come “ritratto di una società e di un periodo”, o come “potente affresco”, delle quali tanti avidi collezionisti di frasi fatte, individui che non hanno addosso un pelo che gli appartenga, hanno immediatamente abusato. No. Dico semplicemente che La dolce vita è un poema cinematografico, suddiviso in canti e strofe” in Un fraterno evviva all’amara via Veneto di Fellini  contenuto in Al cinema non fa freddo, a cura di G. Amelio e con una postfazione di G. Fofi, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 19992, pp. 79-80], Effettivamente i conti sembrano tornare dal punto di vista strutturale, se si ricorre alla forma poematica, e della sua partizione in strofe ci gioveremo, oltre che di alcuni suoi contrappunti, nella descrizione del film» (p. 74).
 
Marotta ha, quindi, colto nella de-strutturazione del testo cinematografico e nella sua apparente mancanza di continuità narrativa la novità formale più significativa del film. Sostanziale negazione della sistemazione del film come predicato e praticato a Hollywood, La dolce vita non ha un inizio (la lunga sequenza del Cristo lavoratore portato in elicottero sopra Roma non è giustificato da necessità narrative particolari) né ha una fine (le ultime inquadrature del film con i messaggi muti di Paola, la ragazza umbra interpretata da Valeria Ciangottini, non concludono affatto la storia e semmai preludono a qualcos’altro, una ipotetica redenzione futura – come pure è stato ipotizzato). Biondi suddivide in quindici strofe (più o meno) la struttura finale del poema e li esamina con cura e attenzione notevoli. Quello che cerca di decrittare con la precisione maggiore è, tuttavia, l’episodio del suicidio dell’intellettuale Steiner (che nelle aggiunte di sceneggiatura affidate a Pier Paolo Pasolini avrebbe dovuto chiamarsi Mattioli, come il banchiere-mecenate realizzatore della collezione dei testi della Letteratura Italiana per la Riccardo Ricciardi Editore di Napoli). Questo momento è tra i più enigmatici di tutto il film, molto di più della scoperta del corpo ormai morto del grande pesce sulla spiaggia che conclude gli eventi fino ad allora narrati. Con una mossa spiazzante “del cavallo” (alla Sklovskij); Biondi individua in una delle meno studiate delle Operette morali di Leopardi, “La scommessa di Prometeo”, una delle possibili fonti dell’episodio in cui Steiner, un uomo all’apparenza realizzato, con una moglie devota e due adorabili bambini, buon musicista e studioso di culture orientali (come il suo eponimo esoterista Rudolf) , decide di far morire se stesso e la sua incolpevole progenie. Il suicidio dell’uomo (interpretato da un formidabile Alain Cuny) resta inspiegabile – come pure quello dell’inglese che chiude la storia di Prometeo ritornato sulla Terra e la cui unica valida spiegazione è quella del taedium vitae in assenza di motivazioni più materiali e più intollerabili. Non è dato sapere se questa spiegazione di tipo nichilistico (che potrebbe occhieggiare a testi esistenzialistici allora in voga come Il mito di Sisifo di Albert Camus) sia quella che ha spinto gli sceneggiatori Pinelli e Flaiano a trasformare questo tragico epilogo come una sorta di momento centrale, una cerniera quasi, tra i diversi elementi che compongono il quadro ritmato e un po’ sbilenco del progetto narrativo. Degli sceneggiatori del film, quello che maggiormente attira l’attenzione di Biondi è sicuramente Tullio Pinelli, meno noto e considerato del più conosciuto Flaiano, eppure scrittore fondamentale per la produzione anche successiva di Fellini, dopo la rottura brusca ma comprensibile con lo scrittore abruzzese (dato il suo carattere non certamente facile e le sue ambizioni letterario-registiche). Così come il film di Fellini del 1960 risulta, alla fine della lettura, soltanto il punto di partenza del libro che si distende in lunghe digressioni su altre realizzazioni cinematografiche del maestro riminese (soprattutto risulta molto interessante l’analisi del Satyricon e delle sue somiglianze strutturali proprio con La dolce vita) o su momenti di storia letteraria legate alla sua regione natale. Importante è, infatti, ai fini della comprensione dell’ultimo Fellini la ricerca letteraria di Ermanno Cavazzoni, l’autore di quel Poema dei lunatici da cui il regista ha tratto lo spunto del suo ultimo film, La voce della luna (con Roberto Benigni e Paolo Villaggio), una pellicola certo spesso stanca e irrisolta ma con motivazioni formali sovente non indifferenti (la scena del valzer nella discoteca, ad esempio).
Alla fine, il libro risulta, per questo motivo, una lunga introduzione a un testo teatrale dello stesso Biondi ispirato e ripreso dalla possibile sceneggiatura di un film (sempre vagheggiato e mai realizzato), Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, che Fellini aveva scritto in collaborazione con Dino Buzzati e Brunello Rondi nel 1965 e mai iniziato (nonostante una parte del lavoro letterario fosse finito). Ne resta un graphic novel di Milo Manara che riprende lo story board abbozzato dal regista e narra di un violoncellista che non si accorge di essere morto (pensa, invece, che il suo aereo si sia fermato per motivi di difficoltà atmosferica in quel di Colonia). Il testo teatrale di Biondi, adattato in collaborazione con Gabriele Marchesini, va molto al di là del puro plot del Mastorna e costituisce una sorta di rielaborazione del mondo interiore, poetico e onirico, di Fellini: “un radiodramma portato in scena come mise en espace” – così lo definisce Gabriele Marchesini a p. 16 del volume. Si tratta anch’esso di un omaggio a Fellini che vuole andare al di là della pura ricerca archivistica e storiografica per tentare di darne una definizione più intima e interiorizzata, una sorta di immedesimazione che sappia valutarne così le qualità più profonde e vissute, meno legate alla superficialità del glamour di una vita spesa per il cinema e nel cinema.
 
 


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