Daniele Pugliese, Io la salverò, signorina Else, Roma, Edizioni Portaparole, 2012


Complotto di famiglia
di Giuseppe Panella

 

Ci sarebbe stato un unico sistema possibile per salvare la signorina Else T. , diciottenne, figlia di un facoltoso avvocato viennese, in vacanza nel Grand Hotel Fratazza sito in San Martino di Castrozza in provincia di Trento che nel 1924, anno di pubblicazione del romanzo breve di Schnitzler, era ancora meta quasi esclusiva della buona borghesia austroungarica (anche la monarchia absburgica era ormai da tempo tragicamente sprofondata nell’oblio dei nostalgici).Daniele Pugliese cerca di sperimentarlo con successo anche se indubbiamente con gravi difficoltà teorico-pratiche: distogliere la fanciulla dal prendere la massiccia quantità di veronal che la porterà incoscientemente verso una morte prova di dolore e di agonia significherebbe per lui riuscire a convincerla che, tutto sommato, non vale la pena né di mostrare, nel fulgore della sua bellezza in fiore, il proprio corpo bianco e intatto di giovane donna al viscido e libertino signor von Dorsday, detentore di un patrimonio tale da poter salvare suo padre dal disonore della bancarotta né uccidersi solo per evitarlo. Lo scrittore DP (così si presenta alla signorina Else) ci si proverà con esiti altalenanti che costringeranno sia la giovane donna a guardare in profondità nella propria mente sia lui stesso a confrontarsi con i problemi fondamentali della propria esistenza.
San Martino di Castrozza, località alpina assai rinomata per le attività sciistiche che vi si possono svolgere ancora oggi con profitto per chi è appassionato degli sport di montagna, era un luogo molto amato dai viennesi che potevano permetterselo. Aveva anche, all’epoca, una folta clientela di origine ebraica – come pure un passo significativo di Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani sembrerebbe dimostrare[1]. Allo stesso modo di Arthur Schnitzler, assiduo frequentatore della località montana, anche Freud è stato ospite dei suoi alberghi  (come fanno fede alcune delle lettere da lui scritte nel corso dell’estate del 1913, quando l’albergo Fratazza era ancora in piedi e non era stato ancora distrutto dalle granate tedesche come avverrà nel 1915 nel corso del primo conflitto mondiale). E’ probabilmente a San Martino di Castrozza, infatti, che si svolge quel breve incontro tra Freud, Rainer Maria Rilke e la persona che viene etichettata come “l’amico silenzioso” (e che molto probabilmente – secondo Franco Rella – non è altri che Lou Andreas-Salomé, all’epoca l’amante ufficiale e molto più anziana di Rilke) e dove viene sollevato per la prima volta, il problema della “caducità” (la Vergänglichkeit) che rappresenterà da allora in poi un importante elemento di raffronto e di passaggio tra Eros e Thanatos. Questa ricostruzione bio-topografica, tuttavia, non vuol essere soltanto una puntualizzazione attenta alla storia locale e al suo passato quanto una riflessione sui luoghi come riflesso degli eventi che vi si sono svolti o che vi si sarebbero potuti svolgere.
Nel testo narrativo di Pugliese, tuttavia, Freud non riveste un’importanza apparentemente eccessiva e resta quasi sullo sfondo ma la sua presenza si sente, eccome, come una sorta di fantasma che presiede agli eventi. Lo rileva lo stesso Pugliese, alla conclusione del suo testo narrativo :

«Si conoscono in modo approfondito gli scrutamenti reciproci, le attrazioni, i respingimenti, le schermaglie, i sospetti, le ammirazioni, i debiti incrociati intercorsi fra Schnitzler e Freud ma, io almeno, non so cos’avrebbe pensato lo scrittore viennese leggendo questa frase, tratta da una lettera dell’8 gennaio 1932 di un altro illustre e “patricida” scavatore dell’anima, Carl Gustav Jung: “Essere quel che si è non è facile: occorre prima di tutto imparare a sopportare se stessi, a perdonarsi per carità cristiana i peccati propri. Tutto questo è spaventosamente difficile”. Accogliersi, accettarsi, ammettersi, riconoscersi e anche, un po’, passarci sopra, può essere salutare e portare beneficio a se stessi e a chi ci sta attorno» (p. 94).

Ma più che appoggiarsi all’autorità di Schnitzler, di Freud e del suo “fratello-nemico” Jung, Pugliese preferisce fare da sé e tentare un dialogo in prima persona con Else stessa, un dialogo che sia se-duttivo
[2] come tutti i veri dialoghi filosofici e “pedagogici” sanno essere quando sono fondati sulla volontà decisa e ostinata di mettersi autenticamente in rapporto con la persona con la quale ci si confronta e che si vuole convincere della bontà e della verità delle proprie posizioni.
DP (come preferisce farsi chiamare il personaggio principale dell’operetta in cui recita) vuole che Else si salvi e neppure che faccia scempio del suo corpo dandolo in pasto allo sguardo viscido e bramoso del ricchissimo von Dorsday che potrebbe salvare il padre dallo scandalo di un fallimento annunciato. L’”intruso” nella storia di Schnitzler vorrebbe che Else si persuadesse a vivere e a godere del proprio corpo in modo innocente, senza sentirsi colpevole di essere “troppo sfacciata” (è un rimprovero che la giovane donna si rivolge spesso nel monologo che costituisce la narrazione della sua ultima giornata terrena). Non solo vorrebbe che si liberasse di certe sue inibizioni ma la esorta a pensare a uomini diversi da quelli che la sua educazione di signorina di buona famiglia la spingerebbe a considerare come partiti accettabili per un matrimonio piuttosto che per un flirt.
Else si sente, invece, costretta ad una scelta di reversibilità nei confronti di una famiglia cui crede di dovere tutto e che, invece, non le ha mai dato nulla: un padre scialacquatore, cinico e alla ricerca di facili emozioni a pagamento, una madre succube più che del marito del buon nome della famiglia, un fratello farfallone sempre innamorato di coriste o attricette con cui consuma degli insignificanti quanto appassionati “amoretti”[3] e un cugino medico, Paul (la cui relazione sessuale con l’amica Cissy Mohr non è certo un segreto anche per lei).
La lettera-espresso con la quale la madre le chiede di essere compiacente con Herr von Dorsday perché la somma di trentamila fiorini necessaria a salvare il padre possa essere spedita a Vienna improrogabilmente “entro il giorno sei, a mezzogiorno” presso l’incorruttibile dottor Fiala che li aspetta per non far scattare l’azione legale contro il padre, scatena in lei una ridda di sensazioni contrastanti, di ricordi, di aspirazioni mancate, di sogni, di rimpianti per storie d’amore che avrebbero potuto esserci e non ci sono state. Per queste sue languide titubanze amorose, per queste sue ambigue pulsioni mai realizzate, per i suoi piccoli intrighi amorosi mai realizzati, Else si sente in colpa e vorrebbe scontarli con un gesto unico, risolutivo, concedendo a von Dorsday ciò che vorrebbe e che si riduce ad uno sguardo lubrico sul suo bianco corpo di giovane donna.
DP è convincente nel distoglierla dal suo gesto insano e, contemporaneamente, dal concedersi a von Dorsday di cui ha schifo. Ma la esorta a fare di sé e del suo corpo quello che le sue pulsioni di giovane donna sana vogliono spingerla ad essere, a corteggiare l’azzardo della seduzione (il giovane italiano “dalla testa di antico romano”) e dell’infedeltà (i suoi vagheggiati “mille amanti”):

«Appunto. Cambiare. Non volevi cambiar vita? Così dovremmo fare tutti, dicevi. Ecco, adesso ne hai l’opportunità. Non attribuendo colpe a destra e a manca come fossero premi, tanto per cominciare. Io non credo che esistano le “colpe”, solo le responsabilità. “Colpa” è una parola che deliberatamente non uso mai, cara mia.  […]  Credo che il resto degli esseri umani farebbero bene ad occuparsi solo delle proprie responsabilità, mai di quelle degli altri, che pure esistono, eccome se esistono, ma non merita occuparsene se non ci si vuole addentrare in un labirinto senza fine nel quale neppure le pareti sono gradevoli a vedersi» (p. 72).

Il breve testo di Pugliese si rivela così, oltre che un romanzo composto da incastri narrativi e da citazioni dirette dal romanzo breve di Schnitzler, una sorta di confessione-apologo della e sulla natura umana. Si ha come l’impressione, in fondo, che l’autore, oltre che a voler salvare il suo
alter ego che gli funge da specchio della propria umanità, si spinga oltre la narrazione per provare a salvare anche se stesso, giustificando la propria esistenza alla luce delle stesse promesse di cambiamento e di vita più autentica che sostanziano il suo dialogo con la giovane donna.
“Salvando” la signorina Else da un’inutile morte, allora, Pugliese si prova a dare della condizione umana una visione che escluda dal novero delle possibilità l’inutile sacrificio e l’altrettanto inutile colpevolizzazione che lacerano corpo e anima di chi non si accetta compiutamente o si rifiuta di viverla in tutta la sua possibile e auspicabile interezza.



[1] G. BASSANI, Il giardino dei Finzi Contini, Milano, Mondadori, 1980, p. 224.

[2] L’allusione non è certamente casuale. Nonostante una nutrita tradizione di critica filosofica ne avvalori fin dall’inizio le qualità letterarie, Pugliese è piuttosto scettico sulle qualità della scrittura kierkegaardiane come vengono espresse nel suo celeberrimo Diario del seduttore (luogo centrale della complessa galassia teorica costituita da Enten-Eller del 1843). Citando il regesto delle “belle fanciulle” delibate da Schnitzler e da lui descritte come in un catalogo: “Ma il computo non era così arido come può apparire, perché, per ognuna delle dolci fanciulle, aveva una spiegazione l’indomabile erotomane che sulla figura di Casanova ha scritto più di cento pagine e chissà cos’altro ci avrebbe regalato se si fosse cimentato, magari al posto del noiosissimo Kierkegaard, il cui cognome tradotto alla lettera fa Cimitero, con il personaggio quasi mitologico dell’opera più bella di Mozart” (p. 15).

 

[3] Amoretto (Liebelei) è il titolo di un’opera teatrale di Schnitzler redatta nel 1895 e rappresentata con immediato successo (cfr. A. SCHNITZLER, Amoretto, trad. it. di P. Chiarini, Torino, Einaudi, 1975). Da questo testo teatrale, nel 1914, con la sceneggiatura dello stesso Schnitzler, era stato tratto un film muto diretto dal regista danese Holger Madsen ma la consacrazione cinematografica dell’opera è merito di Max Ophüls che lo portò sullo schermo nel 1933. Su questo splendido film del regista di Saarbrücken, mi permetto di rimandare al mio “Linguaggio e forma delle passioni nel cinema di Max Ophüls”, in “La Valle dell’Eden”, 2, maggio-agosto 1999, pp. 115-130.

 





     

 
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